Page 7 - Inno: Il Gran Sasso d'Italia
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scelta dell’inno quale mezzo espressivo, certamente preferito al sonetto, o alla canzone, o
ad altra struttura metrica che fosse, in ragione della sua funzione “tessitoria” d’un particolare
intreccio poetico, o anche del suo modo specifico di “celebrare,” cantando, come era nelle
pubbliche preghiere, materia di speciale significato, o ancora ed infine, per etimologisti più
propensi a cercarne la radice in parole zende o copte piuttosto che in quelle greche, della
sua maniera particolare di esprimere ossequio, lode benedizione.
Orbene, l’inno vicentiniano, in quanto inno, sembra assommare in sé tutte e tre le forme
additate dagli specialisti in ambito etimologico, attento come egli era e la sua produzione
poetica, edita e inedita, lo indica chiaramente, all’humus delle radici latine o greche, zende
o copte che fossero. Da questo specifico punto di vista è come se Vicentini tessesse,
cantando e ossequiando, con animo sciolto alla lode e alla benedizione, la straordinaria tela
del Gran Sasso, cucendola, come è detto nella straordinaria strofa d’i apertura, coi fili del
“loco alpestre,” con “l’aere” che spira “una brezza pura,” con la “verginità” del “riso di
natura,” infine col linguaggio insolito che hanno l’acque, la terra, i fior.
Sul piano squisitamente letterario, e su quello più specifico delle fonti che lo individuano e
lo modellano, vi è da dire come l’inno vicentiniano, trovi nel dettato poetico del Manzoni, il
suo modello-principe, senza per questo dimenticare ed anzi ancora una volta esaltandoli
nella linea Dante-Manzoni particolarmente cara a studiosi cattolici di ieri e di oggi e non
soltanto a loro, gli amati inserti danteschi. Del Manzoni Vicentini tiene conto nel
componimento in questione soprattutto facendo riferimento a “Pentecoste” e al Cinque
Maggio”. I “luoghi” che accomunano l’inno alla “Pentecoste” sono almeno due, di cui il primo
relativo al tono generale dei due componimenti e il secondo inerente, invece, ad una comune
utilizzazione di particolari forme retoriche.
E’ importante notare come l’inno faccia proprio l’espediente della pentecoste del cosiddetto
“tono clamante” che non è da ricercare solo in una sorta di richiamo a motivi di natura
geografico spaziale, ma anche nella sentita commossa e corale preghiera manzoniana intesa
ad esaltare la discesa dello Spirito Santo quale unico mezzo per sorreggere e illuminare
l’oscuro travaglio umano: nel primo caso, col Vicentini impegnato a consegnare le “voci”
degli Arabi, dei Parti, dei Siri a quelle dei suoi Pretizii, Piceni e marrucini, non le
determinazioni geografiche delle Ande e del Libano, dell’Erinia e di Haiti, a quelle dell’Etna
e del Vesuvio, del Pelòro e del Vùlture; nel secondo caso col poeta aquilano intento ad
introiettare nel proprio inni il senso della discesa dello Spirito Santo, quale mezzo per
sorreggere il travaglio umano, ben introdotto nella funzione da lui attribuita al Gran Sasso,
che è solo di natura poetica, tout-court, ma è anche manzonianamente, come si specificherà
meglio più oltre, d’ordine sociale e umano. Circa la comune utilizzazione di particolari forme
retoriche che si stringono più di quanto si possa ritenere L’Inno al Gran Sasso alla
Pentecoste, basti il solo esempio della terza strofa del primo, raffrontata con la
diciassettesima del secondo inno. In questione sono rispettivamente i versi 5-6 della terza
sestina, appunto, dell’inno vicentiniano, che dicono:
Né per cangiar di secoli
L’avìto onor cangiò
e i versi, pure 5-6 della XVII ottava dell’inno manzoniano, che recitano:
manda alle ascose vergini
le pure gioie ascose.
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