Page 25 - Piero Gasparini - La "mia" Bolivia
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sapeva quanto l’istruzione fosse determinante per la liberazione di quella

       gente dalla povertà. “I doni che Dio m’ha dato io li devo sviluppare e

       mettere al servizio degli altri non per realizzare me stesso, ma per dare

       aiuto agli altri”: è una delle tante frasi che vediamo impresse sui muri della

       scuola, quasi come una sacra Bibbia.

             Ci facciamo anche una partita a pallone, là negli spiazzi della foresta

       lasciati liberi dalla devastazione dei distruttori di piante tropicali. È un

       allenamento a quaranta gradi, meno male che c’è ombra. Poi, una sera, la

       vera partita. Noi quarantenni (panciuti o giù di lì) e gli indios men che

       ventenni, con la maglietta in piena regola con scritto lo sponsor: “Padre

       Remo”. Meglio non descrivere la pietosa nostra figuraccia: otto goal subiti,

       tre realizzati. Pantaloni rotti nei piegamenti e una distorsione (al Narciso)

       che lascerà il segno fino in Italia.




             I momenti strettamente religiosi nella chiesetta, l’unico punto

       d’incontro perché sacro e perché è il solo illuminato. Solo qui c’è la

       corrente, da pochi mesi arrivata. “L’aveva detto padre Remo che un giorno

       sarebbe arrivata. E sarebbe arrivata anche la strada. Ed anche le suore

       sarebbero arrivate”: ce lo dicono tutti. Preghiamo, cantiamo, preghiamo: ci

       sentiamo a casa nostra in mezzo a quelle centinaia di campesinos che la

       sera, quando li vediamo, sembrano trasformati. I vestiti. Ma dove li

       prendono, dove li tengono? Nelle capanne, per terra? Incomprensibile. In

       chiesa c’è un trambusto: niente paura, dicono le suore, è solo un serpente.

       Sì, è velenoso, ma ci si fa l’abitudine, non al veleno, ma alla presenza di

       altri esseri. Del resto, pur senza drammatizzare, qui la vita vale come la

       morte o viceversa, o comunque la si accetta serenamente. A me sembra fin

       troppo serenamente. “È più importante un animale di un bimbo”, è vero.

       Ma mi sembra difficile da accettare. Per gli indios è più facile accettare il

       discorso della ineluttabilità che non è, però, rassegnazione.









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